La più bella tra le belle: la musa Polimnia

La più bella tra le belle: la musa Polimnia

L’incantevole cornice della Centrale Montemartini di Roma regala meraviglie ad ogni angolo.
Anche il visitatore più distratto non può rimanere inerme dinanzi al fascino della statua della Musa Polimnia, nota anche come Musa Pensosa.

Siamo a Roma, nel biennio 1927/1928 e durante gli scavi che interessano la zona di Via Terni
(Villa Fiorelli), verso il limite orientale del Celio poco al di fuori delle Mura Aureliane, emerge da una galleria franata e molto probabilmente adibita a cava di tufo, una scultura in marmo pario identificata come la Musa Polimnia.
Di lì a poco, agli archeologi apparirà una seconda scultura, sempre femminile, a cui manca la testa, di minor pregio, identificata con la Musa del tipo Melpomene di Mileto. L’ipotesi argomentata sarà che le due sculture facessero parte di un’unica decorazione comprendente tutte le Muse ritratte di profilo.
Entrambe le statue si datano all’ultimo quarto del II secolo d.C e forse quella di Polimnia è una delle creazioni più tarde, ma di maggiore fascino per la fedeltà all’originale riscontrabile nell’opera di Filisco di Rodi, scultore ellenistico attivo a Rodi nella prima metà del II a.C. inventore dell’archetipo scultoreo con Apollo e le Muse.

Le Muse di Filisco sono teatrali non solo per loro natura e per l’accento appassionato, ma perché capaci di valicare i limiti stessi della rappresentazione con l’apertura che il maestro ha dato al tema.
A Roma per il Tempio di Apollo Medico (detto in seguito Sosiano), Filisco ripetè l’idea delle Muse, su commissione di Marco Emilio Lepido che voleva qualificare l’antico luogo di culto in Campo Marzio.

L’elemento più straordinario di Polimnia è forse il suo bagliore, la sua luminosità, perfettamente visibile perché dopo secoli è ancora intatta la levigatura-patinatura del marmo.
Un soffice mantello la avvolge ed in un battito la pesantezza del marmo svanisce a favore di mille pieghe del panneggio inspiegabilmente leggere.
Questa candida fanciulla in meditazione, poggia il corpo su di un rupe che incarna la frontiera della realtà, rimando moderno a quella “siepe leopardiana” oltre cui “la mente si affaccia agli interminati spazi della poesia”.
La figura è chiusa in un unico volume dal quale fuoriescono solo il piede e la mano sinistra che regge un rotolo di versi.

E’ plausibile che alle due sculture si aggiungessero altre figure di Muse per completare un “ciclo” che doveva essere inserito nella decorazione di un’importante residenza imperiale.
Il collegamento più diretto, per le circostanze del luogo di ritrovo, è quello con gli Horti Spei Veteris che si estendevano in corrispondenza dell’odierno piazzale di Porta Maggiore.
La denominazione ad spem veterem deriva dalla presenza di un antico tempio dedicato alla Speranza e presente nella zona.
Qui l’imperatore Settimio Severo progettò un nuovo complesso monumentale, finalizzato solo da Elagabolo, divenendo quasi un secondo Palatium dopo quello ufficiale del Palatino.
Non conosciamo i dettagli apportati da Elagabalo, in soli quattro anni di regno, ma sappiamo che con lui la nuova residenza assunse uno sfarzo inusitati in perfetta sintonia con il carattere capriccioso ed irriverente dell’imperatore.
Nel 270 d.C. la residenza perse il suo splendore originario per la costruzione di un recinto urbano che divise in due il complesso. La zona al di fuori delle mura rimase in totale abbandono, quella interna fu riutilizzata e rivalorizzata nel IV secolo con gli interventi dell’imperatrice Elena, madre di Costantino.

 

Per saperne di più e su dove trovarloQUI

 

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Fonti: Sabato al Museo, P.Moreno

Musa Pensosa catalogo mostra, Emilia Talamo

Gli horti di roma antica, Electa

 

 

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